Come riassumere in poche righe due millenni di storia? Come lasciare intravvedere il fondo delle proprie motivazioni personali?
La spiritualità monastica è semplice e molto complessa al tempo stesso. Rimanendo all’interno della tradizione cristiana, che è quella che mi interessa, la spiritualità monastica affonda le proprie radici nella primissima comunità cristiana formatasi a Gerusalemme attorno a Maria e agli apostoli. Si tratta di un modo radicale e comunitario di vivere il messaggio di Cristo. In Egitto e in Palestina abbiamo notizie sin dai primi secoli di eremiti e di comunità (cenobi) menanti una vita di rinunce e mortificazione, di preghiera (specialmente i Salmi, che venivano appresi a memoria anche dagli analfabeti e recitati ad ore fisse) e digiuno in vista del Regno dei Cieli. Nelle Vite e detti dai padri del deserto conosciamo numerose figure di uomini santi, ritirati nel deserto per decenni, ne apprendiamo gli insegnamenti e le azioni miracolose, assistiamo alla loro lotta col maligno e alla vittoria dello spirito sulla carne. Per quanto affascinanti, queste prime comunità recano l’impronta del carattere particolare di ciascuno di quei santi uomini. In parte le cose si evolvono con san Pacomio, in parte hanno uno sviluppo nel monachesimo orientale con san Basilio di Cesarea, nel quarto secolo. Ancora oggi il monachesimo orientale segue una regola ispirata a san Basilio, il quale fa parte anche delle fonti ispiratrici della Regola occidentale per antonomasia, quella di san Benedetto.
In realtà la regola di san Benedetto non è la prima d’Occidente, preceduta almeno dalle regole leriniane (dall’abbazia presente nell’isola di Lérins, di fronte alla Costa Azzurra) e dalla Regola del Maestro. Certamente quella benedettina è la regola che ha cambiato il volto dell’Europa. In pieno sesto secolo, nella decadenza culturale dell’Impero Romano, nel bel mezzo di numerose invasioni barbariche, si erge una figura di santo che sarà il germe di un nuovo inizio. Della figura storica di san Benedetto sappiamo pochissimo, di fatto abbiamo solo i dati riportati da san Gregorio Magno nei suoi Dialoghi. Del suo lascito possiamo vedere gli effetti camminando in ogni paese d’Europa.
Non solo monasteri, ma rinascita dell’agricoltura, non solo preghiera, ma canto gregoriano, notazione musicale, studio e trasmissione della Bibbia e dei classici, non soltanto chiostri, ma opere architettoniche che ancora segnano tanti punti del nostro paesaggio, scultura, pittura. Possiamo dire che se l’Europa della fine dell’Impero Romano non cadde nella barbarie, ma riuscì a trasmettere alle generazioni successive non solo i testi dell’antichità, ma la stessa scrittura, lo dobbiamo ai monaci. Eppure non abbiamo a che fare con abili operatori culturali, né con un’élite di artisti, non si tratta di filologi né di imprenditori agricoli, anche se i monaci sono di volta in volta un po’ di tutto questo. Abbiamo a che fare con uomini che prima e sopra ogni cosa cercano Dio. Nel cercare Dio, nel rimanere al Suo servizio, quasi incidentalmente, si occupano di tutto il resto. Perché la Regola di san Benedetto ha come primo e unico fine la santificazione di chi milita sotto di essa, vuole cioè istituire una “Dominici schola servitii”, una “scuola del servizio del Signore”. Ma questa scuola è così equilibrata, così intrinsecamente civilizzatrice, che contiene in sé il germe di tutte quelle attività che ho sopra elencato.
Perché per prima cosa i monaci pregano, e pregano soprattutto in coro, cantando l’Ufficio liturgico nelle varie ore canoniche. E questo canto si sviluppa e prende forma di bellezza celeste, forgiato non da un semplice sentimentalismo, ma dalla grandezza e profondità di veduta della nostra patria divina. Il canto dei monaci, nella liturgia tradizionale, è quanto di più simile al Paradiso possa trovarsi in terra. Poiché pregano, ovviamente i monaci conoscono e meditano i Salmi e la Bibbia, e nel meditarli si avvalgono dello studio delle lingue, delle conoscenze storiche a loro disposizione, dell’opera di grammatici e filosofi… nasce la biblioteca collegata al monastero, vero cuore di trasmissione della cultura, una trasmissione lenta, meditata, lontana un abisso di secoli dal flusso continuo di informazione dell’era di Internet, una trasmissione che passa dalla testa e dal cuore.
Poiché lavorano, i monaci sanno di doversi mantenere col proprio lavoro, si occupano di raccolti, di bestiame, di artigianato. Fanno l’umile lavoro manuale, senza perdere il contatto con la terra e con i cicli cosmici della natura, in cui ravvisano la potente mano del loro Creatore. Lavorano e creano lavoro per altri, attorno ai monasteri fioriscono i paesi, prosperano le fattorie, la vita perde un po’ della propria asprezza, regolata dalla natura ma anche del calendario liturgico, che prevede mediamente un giorno festivo o di riposo su tre.
Poiché i monaci sono casti, obbediscono e digiunano, seguendo uno alla volta tutti i gradi dell’umiltà, sono capaci di una profondità di cuore data solo a chi si fa “eunuco per il regno dei Cieli”, e il loro cuore converte le rudi popolazioni barbariche con cui vengono a contatto, piegandole sotto il dolce giogo di Cristo e riportando un’unità culturale, morale e – brevemente – anche politica nel nostro continente ormai dilaniato.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con me?
In primo luogo, molto semplicemente, nell’ufficio liturgico anche a me è capitato di vedere un anticipo di Paradiso, una promessa della Bellezza a cui siamo destinati da sempre e da questa visione non voglio separarmi.
In secondo luogo, credo che la forza civilizzatrice della Regola sia ancora enorme, ha solo bisogno di uomini e donne per incarnarsi. In questi tempi in cui vige la “dittatura del relativismo”, secondo un’espressione di sua santità Benedetto XVI, tempi cioè in cui l’ultimo dogma a cui il mondo vuole credere in modo assoluto è che non esiste alcuna verità, disconoscendo un fatto logico prima che ontologico: l’esistenza della verità non dipende dal fatto che qualcuno ci creda o meno, in questi tempi -dicevo – io preferirei conformarmi alla Verità con sforzo e rinuncia, cercare il Bene e il Bello con fatica, piuttosto che crearmi la mia personale verità domestica, e farmela calzare come un pennello. Anch’io, con le mie deboli forze, vorrei cercare Dio prima di ogni altra cosa.
Infine, la spiritualità monastica, scaturisce dal Vangelo (su questo punto, fondamentale è l’opera di Adalbert de Vogüe, La Regola di S. Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, Abbazia di Praglia 1988), e il Vangelo di Cristo è quanto ci è stato dato per la nostra salvezza.
Come si incarna la spiritualità monastica nella mia vita di donna sposata e mamma?
Tramite il legame spirituale con un monastero, sono cioè un’oblata, una laica legata a un monastero particolare (tutti i monaci fanno voto di stabilità, cioè si legano non all’Ordine benedettino o a un’organizzazione, ma a un particolare monastero), considerandomi una specie di monaco in viaggio, che gode del frutto delle preghiere dei propri fratelli e deve adempiere a obblighi particolari, sebbene in parte diversi da quelli che vigono all’interno del monastero. Ciò significa nello specifico preghiera, studio, amore per la propria vocazione (di moglie, di madre, di oblata).