«La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica.»
(T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale del 1917)
Fatica. Torno a scrivere dopo mesi, per riflettere su un elemento dell’educazione, la fatica.
Potrei parlare della fatica di educare, di seguire e far crescere, di crescere noi stessi genitori insieme ai nostri figli, la fatica di essere vigili, di alzarsi di notte, seguire di giorno, rispondere sempre, dare possibilità, creare spazi, stimoli, interessi. La fatica di conciliare vite a volte esigenti, impegni lavorativi, con i bisogni di giovani umani bisognosi di ogni cosa. Ma questa è una fatica che sta sotto gli occhi di tutti, a volte idolatrata, a volte scansata, certamente una parte nota e visibile del ruolo di genitori ed educatori.
C’è una fatica, però, che rimane più in ombra, quasi un rimosso, uno sforzo che un tempo era accompagnato da certa retorica, forse, ma che oggi è scongiurato, taciuto, evitato. Lo sforzo che deve fare chi impara. La capacità di stare su un libro, su uno strumento musicale, su un esercizio ginnico, per un tempo più lungo di quello che sembrerebbe spontaneo e naturale, la capacità di applicarsi anche quando comincia a fare male, quando non è più divertente, quando dobbiamo fare forza su noi stessi per andare avanti. Questa fatica, più ancora della varietà dei talenti naturali, è il vero elemento anti-democratico dell’educazione, l’elemento che fa la differenza tra un virtuoso e un dilettante, tra un esperto e un orecchiante, l’elemento che non può essere surrogato da altre persone, o solo molto parzialmente.
Tale elemento è, a mio avviso, tra i più latitanti nella formazione famigliare e scolastica delle nuove generazioni. Un frainteso senso di premura per i piccoli può averci indotti a risparmiare loro alcune salutari fatiche, magari per scoprire che sono state sostituite da una specie di tour de force del divertimento – celebrazioni di tutto, complesse feste di compleanno dalle età più tenere, pizzate, gioco organizzato… -, a tale premura, però, si è aggiunta una componente ideologica, la convinzione che il bravo insegnante non sia quello che motiva alla fatica, portando verso l’alto, ma quello che la sbriciola, offrendone pezzetti pre-digeriti verso il basso. Ne parlavo anche qui.
Ma la vera questione, ancora più urgente, è che nulla può motivare la fatica, se non la profonda convinzione di perseguire un obiettivo che abbia valore. Hannah Arendt scriveva: «il vero problema dell’educazione sta nell’estrema difficoltà […] di realizzare anche quel minimo di conservazione, quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per “educare” i giovani. […] L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi: e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti» (Hannah Arendt, “La crisi dell’istruzione” in Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 2001; corsivo mio).
Ecco, se ciò che vogliamo trasmettere improvvisamente non ci sembra più così importante, se uno spontaneismo a oltranza ci impedisce di prenderci la responsabilità del mondo così come lo abbiamo ricevuto e il compito di trasmetterlo alle nuove generazioni, se la nostra cultura ci sembra equivalente, forse peggiore, di molte altre, se pensiamo che tra un’idea nata nel solco di una cultura millenaria e un pensierino estemporaneo e senza radici ci possa essere una pari dignità, allora non avrà alcun senso la fatica come elemento dell’educazione. Lasciamo i ragazzi sul divano e vediamo quel che ne verrà.
A quel che sembra è la via intrapresa quasi coralmente dalla scuola italiana e occidentale, la via intrapresa anche da molte famiglie e probabilmente dalla società nel complesso, seppur con ammirevoli eccezioni. La strana illusione che tra civile e selvaggio, tra barbarie e civiltà, sia in fondo più libera e divertente una mancanza di passato, di struttura, di contenuto, a tutto vantaggio di spontaneismo e improvvisazione, si è fatta ormai ampiamente strada nell’arte, nella cultura e nel pensiero di massa dei nostri tempi. Non potrebbe essere altrimenti, perché una vera cultura, una civilizzazione, è sempre qualcosa di non massificante, un dialogo tra pensieri e talenti, tra urgenze creative, nuove soluzioni e consapevolezza delle proprie radici, che – in definitiva – è consapevolezza di sé.
La stessa parola tradizione sta assumendo sempre più un’accezione negativa, dire “tradizionale” di una cosa è quasi come dire museale o superata, in un mondo in cui tutto deve essere nuovo, fresco, cool. Inutile dire che il nuovo è difficile e impegnativo, per lo più si tratta di un vecchio inconsapevole di sé.
Rimane, invece, come tratto distintivo della formazione individuale quell’elemento supplementare di fatica, quell’elemento di tradizione nel senso di “tradere”, cioè “trasmettere”, che è la vera possibilità di pensiero a un tempo razionale e creativo. Cioè, in definitiva, un modo di redimere il tempo, di farne qualcosa che resiste allo scorrere indistinto, per farne una costellazione di elementi di valore.
«Redimere tempus. — L’unica nobiltà dell’uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell’amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che «vanità e soffiar di vento», risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò che non appartiene all’eternità ritrovata appartiene al tempo perduto.»
(Gustave Thibon, L’uomo maschera di Dio, SEI, Torino 1971, p. 262)
Articolo apparso anche sul blog di Costanza Miriano.
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