Il post che segue è già stato pubblicato sul blog di Costanza Miriano: qui.
Per mesi, confesso, sono stata assalita da uno sconforto senza precedenti: senza precedenti, almeno, dall’epoca della mia conversione. Era frutto di un errore di prospettiva e, ora che mi sembra di averlo compreso, credo che parlarne possa essere utile anche ad altri.
Il motivo dello sconforto era l’azione combinata di una serie di fattori che possono andare sotto il titolo generale di “una pervasiva cultura di morte”. La parola che viene in mente è: entropia. Tutto rallenta, si esaurisce, si raffredda e, infine, muore.
La proposta di legge belga per l’estensione dell’eutanasia anche ai bambini piccolissimi, per richiedere la quale la “sofferenza dei genitori” sarà considerato un valido motivo, sembra essere un primo passo per forzare nello stesso senso anche altre legislazioni europee. D’altra parte la discussione sull’aborto post-nascita (sì, è quello che sembra: un bambino nasce, non lo vogliamo, lo uccidiamo) è già accesissima.
Aborto, contraccezione e teorie di genere sembrano essere imposti forzosamente dalle istituzioni europee e da quelle mondiali, come l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). L’Unione Europea, ma anche la civilissima Svizzera, non vogliono certo farsi trovare impreparate su questi temi e propongono corsi obbligatori di educazione sessuale già in tenerissima età; le linee guida consigliano di far scoprire la bellezza della masturbazione ai bambini dai 0 ai 4 anni, per esempio. Un caso interessante, per farsi l’idea di quel che accadrà, è il programma obbligatorio, ci tengo a sottolinearlo, di educazione sessuale per bambini, messo a punto per il canton Ticino, dove i fortunati utenti degli asili statali avranno una sex box a disposizione per i loro giochi. D’altra parte, la pedofilia in alcune sue forme è già stata declassata come malattia psichiatrica dal DSM -V – l’ultima edizione del più influente manuale diagnostico psichiatrico al mondo, curato dall’American Psychiatric Association – e in prospettiva ci possiamo aspettare la crescita di un movimento di opinione che tenterà di farla passare per una “tendenza sessuale” tra le tante, quindi meglio un po’ di teoria prima di passare alla pratica.
La sensazione generale non è più quella di accerchiamento, ma quasi peggio: fine di un mondo, fine di una civiltà, fine di tutti i punti di riferimento.
È possibile che davvero la trama che tiene insieme tutti questi fattori sia una mentalità malthusiana che mira alla riduzione della popolazione mondiale. Certamente la rivoluzione sessuale globale è qui.
Già nel 1982 lo scrittore Neil Postman, nel suo saggio La scomparsa dell’infanzia. Ecologia delle età della vita[i], descrive il nostro mondo fortemente pervaso di mezzi di comunicazione che non fanno più differenza tra le età degli utenti, come una società tendente alla scomparsa dello specifico dell’infanzia, per creare invece una nuova genìa di bambini-adulti e adulti-bambini. Bambini che hanno visto tutto, che conoscono tutto, che, pur non avendo la maturità per elaborarli, sono esposti a tutti i “segreti” dell’età adulta – sesso e violenza, in primis – e adulti rimasti allo stato di bambini, incapaci di rendere razionale e maturo il rapporto con la realtà, perché troppo influenzati dalla finzione mediatica.
Lo stesso autore in La fine dell’educazione. Ridefinire il valore della scuola[ii], si interroga sull’evoluzione del concetto di scuola dall’epoca in cui era un strumento per accedere alla grande cultura dell’umanità, per arrivare alla scuola attuale la cui funzione sembra essere principalmente quella di “contenere” i bambini mentre gli adulti lavorano e di indottrinarli a un concetto talmente mostruoso di relativismo culturale da non avere praticamente più nulla da trasmettere. Postman scrive: “Il fatto è che, chiamiamole pure come vogliamo, non smetteremo mai di creare storie e futuri per noi stessi attraverso il mezzo del racconto. Senza un racconto, la vita non ha significato, l’apprendere non ha scopo. Senza uno scopo, le scuole sono case di detenzione, non di attenzione”.
Lo sconforto di cui parlavo all’inizio deriva dal fatto che una società e una scuola che ritengono di non avere più nulla da conservare e tramandare, che non amano abbastanza le proprie radici da intraprendere lo sforzo di volerle trasmettere alle generazioni future, che hanno abdicato completamente dalla trasmissione dei contenuti in favore della mitizzazione del “metodo”, ora che la razionalità è indebolita e gli strumenti culturali sono poveri, sono pronte a riempire il vuoto di valori lasciato, e di riempirlo a modo loro.
Tutto questo quadro era diventato fonte di angoscia sempre maggiore, vedevo il paragone con l’epoca della fine dell’impero romano, la fine di un mondo anche se, a chi la stava vivendo, poté allora – e può, oggi – sembrare la fine del mondo. Tuttavia guardavo agli eventi, lo ammetto, con la testa rivolta all’indietro, verso il passato, verso il mondo che sta rapidamente scomparendo. Avrei voluto riavvolgere le lancette dell’orologio, guardavo al passato come alla casa di famiglia da cui ero stata allontanata con la forza.
Solo l’incontro con delle persone reali mi ha aiutato a volgere la testa in avanti e guardare al futuro. Negli ultimi anni ho incontrato famiglie che sono sorelle nella fede: le moltissime famiglie che portano i propri figli ai campeggi per ragazzi di Alleanza Cattolica, i ragazzi che fanno da educatori durante gli stessi campeggi, la famiglia degli amici di Livorno, che ci ha aperto la casa e portato a Messa dove i bambini fanno i chierichetti. Le due famiglie di Genova/Varazze, che ci hanno ospitato come fratelli, con le quali abbiamo condiviso canti e tavolate, spostato una carovana di bambini per andare al mare e parlato con passione di trasmissione della fede e di liturgia monastica. La famiglia di amici romani che ci ha lasciato le chiavi di casa durante le proprie vacanze, perché potessimo anche noi fare una vacanza in un anno economicamente difficile, perché “si mette tutto in comune, come i primi cristiani”. La famiglia della provincia di Crema, che abbiamo ospitato e che ci ha a sua volta ospitato, con la quale sedersi a tavola richiede una mensa aziendale e tanta allegria, oltre a scoprire che le cose in comune sono più di quante non sia possibile per puro caso. E ancora gli amici comuni, che hanno ospitato noi e loro, aggiungendo altri figli e buon vino alla compagnia.
Tutte queste persone, tutti questi figli – e siamo a numeri statisticamente impressionanti! –, non sono resti del passato, ma semi del futuro. La speranza che si creino, ci siano già e continuino ad aumentare delle sorte di monasteri domestici, isole di fede, educazione, cultura. Luoghi dove il futuro non sono le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, ma persone che hanno nome e cognome, figli con gli occhi di mamma e i capelli di papà, figli per lo più generati con il vecchio metodo tradizionale – ma non eravamo noi cattolici i sessuofobici? –, ma anche adottati e affidati, mischiati agli altri nello stesso progetto di famiglia.
Nel suo libro Il monachesimo interiorizzato[iii], Pavel Evdokimov ripercorre in modo interessante la storia del monachesimo, che parte dall’aspirazione all’unione con Dio di alcuni individui per sfociare nella fioritura di vocazioni monastiche nel deserto egiziano, i padri del deserto, prima, e nella nascita del primo monachesimo cenobitico, in seguito, grazie soprattutto alle regole di san Pacomio e san Basilio. Evdokimov, però, indica una terza fase del monachesimo, per quanto presente in nuce sin dai suoi inizi: il monachesimo interiorizzato, un monachesimo del cuore diffuso tra i laici, in cui non è l’abito monastico a salvare, ma l’atteggiamento di costante unione a Dio. Ne parla come di un monachesimo delle famiglie. Lo stesso, a suo modo, che sta cercando di proporre don Massimo Lapponi, autore di San Benedetto e la vita familiare. Una lettura originale della regola benedettina[iv].
Questi monasteri domestici, isole luminose all’interno delle modernità, io li ho visti.
Non sono resti del passato, attardati su una concezione del mondo ormai radicalmente fuori moda, ma germi del futuro.
Come san Benedetto, che alla caduta dell’impero romano, non si preoccupa di salvarne i resti sparsi, ma di costruire uomini per il futuro, allo stesso modo vedo fare intorno a me. E non perché il futuro ci sembri un luogo teologico migliore del presente, ma perché il futuro si costruisce pazientemente oggi, educando, pregando e cercando Dio.
I monaci tra la fine dell’Impero Romano e l’inizio del Medioevo salvano la cultura, la civiltà, persino la scrittura e l’agricoltura, ma non lo fanno per portare a termine un raffinato progetto culturale, lo fanno incidentalmente mentre sono presi dalla ricerca di Dio, quaerere Deum.
“Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”[v].
Lo scrive anche la mia amica Cristina, qui, citando un lungo brano del filosofo Alasdair MacIntyre:
“È sempre rischioso tracciare paralleli troppo precisi fra un periodo storico ed un altro, e fra i più fuorvianti di tali paralleli vi sono quelli che sono stati tracciati tra la nostra epoca in Europa e nel Nordamerica e l’epoca in cui l’impero romano declinava verso i secoli oscuri. Tuttavia certi parallelismi esistono. Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita intellettuale e morale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano di là dalle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costruire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso”[vi].
Ecco: non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. E noi cristiani sappiamo anche su Chi basiamo tale speranza.
[i] Neil Postman, The Disappearance of childhood, Delacorte Press, New York 1982 (trad. it. La scomparsa dell’infanzia. Ecologia delle età della vita, Armando, Roma 2002).
[ii] Neil Postman, The End of Education. Refefining the Value of School, Knopf, New York 1995, (trad. it. La fine dell’educazione. Ridefinire il valore della scuola, Armando, Roma 1997).
[iii] Pavel Evdokimov, Il monachesimo interiorizzato, Cittadella, Assisi 2013.
[iv] Massimo Lapponi, San Benedetto e la vita familiare. Una lettura originale della regola benedettina, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009.
[v] Benedetto XVI, Discorso pronunciato all’incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, tenutosi a Parigi venerdì 12 settembre 2008.
[vi] Alasdair MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Notre Dame, Indiana 1981 (trad. it. Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 2007).
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