Nel sito Tuttoscuola, legato all’omonima rivista specialistica per docenti, ho trovato gli atti di un convegno tenutosi nel 2004, dal titolo “2015, fine della scuola?”.
Nella sua relazione introduttiva Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, citava alcune delle principali cause di disagio della scuola e riportava i dati di uno studio dell’OCSE, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo dell’educazione, che provava a delineare degli scenari per il 2020, cito:
Il primo è quello della conferma dello status quo: mantenimento di un forte “controllo burocratico” sul sistema (curricoli, formazione e accesso alla professione, finanziamento) da parte di autorità pubbliche, con conseguente stabilità, accompagnata però da una possibile carenza di docenti.
Il secondo scenario è quello della riscolarizzazione, cioè di un forte sviluppo del ruolo dei sistemi scolastici in termini strategici, sostenuto da adeguati investimenti. Il terzo scenario è quello invece della descolarizzazione, cioè dello smantellamento dei sistemi formali di istruzione e formazione, sostituiti da reti cooperative (“learning networks”) gestite dalle comunità locali, o da una forte competizione tra agenzie formative e altri soggetti operanti in una logica di puro mercato. Questo terzo scenario potrebbe portare a “smantellare” la scuola, in particolare quella pubblica, così come la conosciamo oggi, approdando a modelli mai sperimentati e di cui non sarebbero conoscibili in anticipo gli effetti a livello sociale e culturale.
“Fine della scuola?” è un titolo provocatorio, ma diciamo che il paziente se non è morto, certamente è molto grave.
Personalmente ho la vaga idea che la scuola non si salvi slegata dalla società che la esprime. E neppure, dei tre scenari delineati, saprei quale prediligere (o meglio, lo saprei con molte precisazioni e distinguo).
Provo però a ragionare in termini di un organismo vivo, la società, e delle sue componenti fondamentali (le famiglie). Io ripartirei dalle famiglie. Perché si potrebbe tranquillamente adattare il titolo e scrivere “fine della famiglia?”.
Se non va a posto questo primo tassello fondamentale, tutto l’edificio traballa. Traballa economicamente, con l’invecchiamento della società e la mancanza di giovani contribuenti che garantiscano il sostentamento del nostro sistema sociale, traballa moralmente, con la difficoltà di trovare accordo sui valori condivisi, traballa demograficamente, lasciando dei vuoti che verranno necessariamente riempiti da altri popoli, con altre culture e altri valori, non voglio esprimere un giudizio di merito, ma allora sarà il loro mondo, non il nostro.
Per salvare la scuola, secondo me, è necessario prima di tutto salvare la famiglia, ripartire dalla famiglia, metterla al centro di un processo che torni a darle respiro (soluzioni lavorative per le donne che non impediscano la maternità, soluzioni abitative, economiche, di gestione del tempo, che permettano a chi lo desidera di avere figli dedicandosi abbondantemente ad essi, senza delegarli dai primissimi mesi di vita alle cure professionali di terzi), poi che la ascolti, che la prenda sul serio e le dia autonomia (ad esempio con un buono scuola per ogni figlio, da spendersi autonomamente in scuole pubbliche, private, famigliari). Una famiglia forte non può che fare scelte educative forti per i propri figli, una famiglia debole, sventrata, marginalizzata, come quella che abbiamo oggi, non può che tirare avanti senza strategie che non siano di sopravvivenza, subire, latitare.
Si tratta di vedere il problema in modo radicalmente nuovo, non più in termini di difesa della scuola come difesa dei posti di lavoro, di scuola pubblica contro scuola privata, di tagli o finanziamenti, di nuovi test di valutazione collettiva… ma come espressione della società che la genera e delle famiglie che la scelgono.
Sto sognando?
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